mercoledì 27 febbraio 2013

Il centro del nuovo mondo - Wewelsburg.


Capitolo II - Wewelsburg.

F. Reimann archeologo, antropologo ed esploratore viene reclutato da Himmler per guidare una spedizione in Tibet alla ricerca di Agharti. 
I suoi studi hanno convinto il Fhurer che ripone molte speranze su di Lui. 
Reimann raggiunge, quindi, Himmler al castello di Wevelsburg. 

Voci riguardanti il massiccio coinvolgimento di molti gerarchi nazisti in pratiche occultistiche si sono rincorse per decenni, prima e dopo la fine della II Guerra Mondiale, appuntandosi in particolare sul secondo uomo più potente del III Reich, l’SS-Reichsführer Heinrich Himmler.
Se un luogo in particolare può essere associato alla figura di questo gerarca, così ossessionato dalla cultura misterica da ritenersi, secondo alcuni, la reincarnazione di Enrico di Svevia e così ferocemente convinto della necessità di sterminare le “razze inferiori” da venir definito dagli alleati il “ragioniere della morte”, questo luogo è uno strano castello del XVII secolo situato presso  Büren, in Nord Reno-Westfalia, che, nei sogni del  Reichsführer avrebbe dovuto diventare il centro del mondo: Wewelsburg.

Perché Himmler volle legare indissolubilmente il proprio nome a questo luogo, facendone il cuore della mistica delle “sue” SS? Alcuni hanno ritenuto che la ragione fosse il suo riconoscimento della zona del castello come incrocio e snodo fondamentale di linee energetiche sotterranee (che aveva imparato a conoscere durante le sue frequentazioni giovanili della Società Thule), altri che la Torre Nord del castello fosse un potente ricettacolo di energie magiche, indispensabili ai bizzarri rituali dei culti misterici nazisti. Molto probabilmente la realtà è molto più prosaica, anche se non meno “particolare”. La Westfalia era uno dei cuori storici della Germania, la terra di “Hermann e Widukind” come Himmler stesso affermò, e, di conseguenza, si prestava perfettamente al posizionamento del centro della rete delle SS. Il  Reichsführer aveva già opzionato altri due castelli nella regione prima di imbattersi, il 3 novembre 1933, durante un tour propagandistico, in Wewelsburg ed “innamorarsene” seduta stante: nell’agosto 1934, una volta consolidato il potere nazista nel Reich, il Comando Centrale delle SS affittò per 100 anni l’edificio dal Distretto di Büren per la somma nominale di un Reichsmark all’anno.

Reimann rimarrà affascinato dal luogo in parola.




venerdì 22 febbraio 2013

Che cos’è il tempo?

Che cos’è il tempo?

Si dice che il tempo sia la misura del movimento o, com’è per la storia, l’ordine di narrazione del mondo esteriore, ma come espressione dell’animo il tempo è affezione. I sentimenti sono fatti di tempo. Il ritmo del proprio respiro. Il tempo è l’esistenza della vita, nei racconti di ogni vita. L’etimo greco rimanda al dividere, “temnein”. Il tempo è quel che ci divide in noi stessi e da altri, ma che dividendo anche ci tiene insieme. Il tempo passa dividendoci, in noi stessi.

Come esiste…
passando, dividendoci, legandoci, separandoci, unendoci …

Qual è la sua natura?
L’affezione

Qual è lo spazio del tempo?
Il paese, la casa, il mondo, l’animo. Solo con il tempo lo spazio diventa un luogo. Così come un luogo senza tempo è solo spazio. Si può dire che con il tempo arrediamo lo spazio dell’animo dando luogo ai nostri sentimenti, a pensieri, ricordi, a voci ... 

L’essere è l’ “ è “ ?
L’essere è quel che diciamo che sia, quell’ «è» porta al linguaggio qualcosa che significa, stabilendo appunto in segno, in “essere”, lasciando intendere un ambito, un confine, un giudizio, una disgiunzione. 
L’esistenza e vita. Ogni «e» congiuntiva diventa «è» di una congiunzione esclusiva. L’essere è il segno scritto della vita, la trascrizione in segni della sua voce, quel che di dentro sentiamo, appunto, che sia. Nella sua unicità esclusiva. Platone diceva che noi che veniamo al mondo, trovandolo già  significato, non sapremo che cosa intendessero spiegare quelli che ci hanno preceduto dicendo  “essere”. Non possiamo saperlo, possiamo però sentirlo, provandolo in noi stessi, «paschein». 
L’essere “è” quel che diciamo di essere, dicendo di ciò che «è». Allora l’«è» di ogni giudizio congiunge quel che il tempo divide. Così il rimando dell’essere e del tempo è tale che l’uno congiunge ciò che l’altro divide. L’essere che diciamo è quel che decidiamo, ogni giudizio è una scelta di quel che siamo. Nell’esclusività della congiunzione dell’“è”, si nasconde e si pronuncia l’essere che siamo e diventiamo giudicando. Unire il diviso è il compito dell’essere, ma nella sua piena espressione resta quel che gli antichi diceva “tutt’uno”, “en panta” o semplicemente l’«uno». Siamo ognuno in Uno, partecipiamo dell’essere del tempo esistendo nella vita. 


Esiste un senso dell’essere che legittima il tempo? 
Il senso dell’essere è nel racconto della propria esistenza. Mettere la vita al mondo e dare mondo alla vita, questa è la congiunzione dell’unione e della disgiunzione. Nell’essere differenti. È l’esperienza di ogni giorno, in ogni luogo, per ognuno, ovunque ci sia mondo, ovunque si voglia colmare di vita il vassoio della terra che il mondo rappresenta. Il senso è l’affezione. 

C’è un tempo per ogni cosa?
C’è un tempo per ogni cosa e ogni cosa ha il suo tempo, la sua relazione, il suo legame. Lo proviamo ogni volta che abbiamo tra le mani qualcosa che ci rimanda a luoghi e persone. C’è un tempo per ogni cosa che misura la cura che ne portiamo. Il tempo è cura. Ed è questo il nesso: il tempo è la cura dell’essere che è cura del tempo che dividendoci ci unisce. 


Il tempo si pone come qualcosa che è distinguibile in parti e quindi divisibile: il presente, il passato e il futuro. In quale parte del tempo ha pensato di non avere tempo? 
Il tempo interiore passa e rimane, giace al fondo. Anche un presente adesso può portare la nostalgia del suo non essere più mentre ancora è. Il tempo noi lo sentiamo. In quale sentimento allora potrò dire di non avere tempo? La vita non ha tempo ovvero la vita senza esistenza è senza tempo. Eppure l’esistenza è felice quando solo è piena di vita. È quando l’esistenza non si conta, ma si vive. Assoluta. Assolta. Vera. È nelle cose che non sono vere che il tempo è perduto. Anche in un amore certo e non vero il tempo è perduto. La verità è allora espressione del tempo e dell’essere, del mondo e della vita. 
Tutto ciò che è falso, o soltanto certo, fa perdere il tempo.

Il passato costituisce il distendersi e l’accumularsi nella nostra memoria dell’esperienza e del nostro trascorrere, della nostra storia: nel tempo del ricordo cosa è andato perduto? 
Sì, la memoria, la storia, il ricordo, sono vasi del tempo, differenti. Sì, c’è in ognuno di essi un distendersi e raccogliersi. Sì, il vaso del ricordo è quello del tempo che si dà come perduto, ma che persiste. Il ricordo è il richiamo del cuore, meglio ancora è il risuonare. Il ricordo ci fa capire come il corpo nostro sia come uno strumento di risonanza. Un solo organo di tutti i suoi organi. Il ricordo viene quando vuole o quando noi vogliamo sentirci come eravamo e siamo in quel che eravamo. Il ricordo è il tempo più proprio, ma anche improprio, perché nel ricordo il corpo si fa risonanza di quante cose ci hanno toccato e sono state per noi vere, anche nel soffrire come nel gioire, nell’essere come siamo. Ognuno è come ricorda. La storia,  l’esperienza, saranno espressione di una ragione, di un canone, di uno schema di rapporti. Il ricordo è diverso. Viene anche senza ragione, come un motivo, non senza essere motivo di noi stessi. 

Nell'attraversare il tempo dell’attesa …
s’immagina quel che viene, si pensa, si ha di mira. Attendere non è aspettare, l’attesa è espressione 
del tendere a qualcosa, a qualcuno, l’aver di mira. Chi attende non aspetta niente. Chi si aspetta qualcosa annebbia la mira e si confonde. Attendere è aver cura. Come diceva il maestro del tiro dell’arco, ripetendo che bisognava tendere, avere di mira il gesto, l’arco e se stessi, non il bersaglio, per essere tutt’uno nel proprio mirare, senza aspettare di colpire in questo o quel che punto. 

L’attesa reclama lo stile. La mira reclama la meraviglia. L’aspettativa è vuota e ingombrante al tempo 
stesso. Impedisce. L’attesa è proprio di una tensione in sé di se stessi tale da mirare al proprio oblio e cogliere quel che di se stessi non si ha conoscenza. 

Il tempo è movimento?
Il tempo in fisica è misura del movimento. Il calcolo di un passaggio. Nella coscienza interiore il tempo misura il sentimento, ma senza un metro fisso, perché ogni sentimento ha il suo tempo differente. 
A chi diamo un tempo e a chi un altro, nella misura del sentimento di affezione all’uno o  all’altro, a questa o quella cosa. Il tempo dedicato è misura d’amore nei gradi differenti della sua espressione, che vanno da quello vero a quello che non lo è più e che tale non è mai stato vero, raggiungendo il punto in cui il tempo è perduto. Dall’altro capo c’è il tempo vero, donato a chi continuiamo ad amare. È il legame che stabilisce la misura del tempo della cura, dell’attesa, dell’amore. 


C’è un tempo sospeso dal quale ripartire?
Un giorno capii da un detenuto quello che non ho mai più perduto. Mi parlava di quel che avrebbe fatto, dei libri che avrebbe letto e delle sue prospettive di vita. Chiesi quanto tempo avesse ancora da scontare in prigione, chi mi stava vicino mi disse che aveva ancora da restarci almeno una decina d’anni. Capii allora, e non ho più dimenticato, che il futuro non è solo quello che in grammatica si chiama “futuro anteriore”. Capii il “futuro interiore”, che non ha una grammatica che non sia quella del proprio sentire. Ecco, il futuro non è quello che verrà dopo, domani o appena avrò finito di scrivere questa pagina, il futuro è quel che scegliamo adesso di raccontare. Quando allora si sente dire che i nostri ragazzi non hanno futuro, bisogna intendere che è del presente che mancano, di un presente che non è raccontabile, senza tempo. “Futuro”, ripeto spesso, è una parola strana, perché implica un “fu” in posizione di participio di un tempo del non ancora. Bisogna intendere allora come Il futuro è quel che del presente adesso scegliamo di raccontare come nostro passato. La scelta dice del proprio futuro. Quel che sceglieremo di raccontare come nostro passato, quel che scegliamo di passare, il nostro stesso passo, l’incedere nella vita della nostra esistenza. Da qui bisogna ripartire, adesso, ora, senza sospendere il tempo.

Intervista a Giuseppe Ferraro
Prof. Ordinario della Cattedra di Filosofia Morale dell’Università Federico II di Napoli

Il tempo nel romanzo è fondamentale...il lettore viene guidato dal passato al presente e viceversa.



giovedì 21 febbraio 2013

Cap IX - La fine dell'era del ghiaccio.


Roma 3 luglio 1970, Biblioteca del Carcere di Regina Coeli
Ore 19.00
******* si trovò di fronte gli occhi di ******* appena entrato in cella.
Uno sguardo mai visto, oltre il maligno, senza fondo, come se la bestia umana fosse riemersa dalle profondità di Lhasa dopo un viaggio di trent’anni, emersa dal buio che s’era fatto intorno e fosse li, la bestia, per prenderlo con sé.
“Tu sei l’uomo della fine. Della nostra fine. Sei un Vizio che ha decretato il termine della nostra era. Hai seppellito per sempre Agharti sotto un cumulo di macerie”.
******* rimase inchiodato nel buio, paralizzato in un silenzio che risaliva lontano dalla memoria e cancellava lo spazio angusto della cella in cui lo avevano rinchiuso. Il gelo cominciò ad arrampicarsi dal basso lungo il suo corpo come trent’anni prima nella radura bianca ed infinita nella quale s’era perso alla ricerca del suo destino. Si sforzò di trovare una parola che rompesse il ghiaccio e lo riportasse al presente ma nemmeno il respiro riusciva a farsi strada nel vuoto della gola secca.
 
 
 

sabato 9 febbraio 2013

Sinossi primo capitolo.

Cap I - La Regina del Cielo
Carlo Ferrero sceglie di andare a Roma a dirigere il carcere di Regina Coeli per emanciparsi dalla figura ingombrante e ambigua del Padre - On Alberto Ferrero che vorrebbe per lui una carriera da magistrato. Il padre male tollera inoltre le idee progressiste del figlio, scambiandole per anarchiche e temendo un suo coinvolgimento nel 68.
Arriva a Regina Coeli, conosce i primi collaboratori: Pinna, Marini, Juric e Marchetti. ma da subito trova un clima pesante nel carcere, un misterioso silenzio che lo insospettisce. Un fatto grave è avvenuto da poco, un detenuto è stato ridotto in fin di vita e lui non è stato avvertito. Il clima è teso, Carlo si sente estraneo e sente l’ombra del padre. Mentre prende le misure e cerca di far valere la propria personalità scoppia una protesta in carcere. Durante il tumulto, Carlo nota un detenuto, Carl Schmidt, arrestato ed in attesa di giudizio per la collaborazione con l’eversione di destra. Scmhidt, uomo di cultura, ex bibliotecario vaticano dirige un gruppuscolo di detenuti con molta autorità e seda la rivolta.
A Carlo non sfugge la cosa. Si incuriosisce e lo vuole conoscere.